Abbiamo ascoltato, come prima lettura, la descrizione della celebrazione della Pasqua di Israele così come nella Legge mosaica aveva trovato la sua forma vincolante. Per Israele la festa annuale della Pasqua era ed è una festa di famiglia. È festa di ringraziamento e, allo stesso tempo, di intercessione e di speranza. Al centro della cena pasquale ci sta l’agnello, come memoria della liberazione dalla schiavitù in Egitto e segno simbolico della liberazione da ogni schiavitù.
“Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno” (Es 12, 5).
La cena pasquale a base di agnello è ricordo narrativo del fatto che era stato Dio stesso a liberare Israele “a mano alzata”. Egli, il Dio misterioso e nascosto, si era rivelato più forte del faraone con tutto il potere che questi aveva a sua disposizione.
Lo stesso Dio, potente ed onnipotente, non ha abbandonato, né mai abbandonerà il suo popolo alle brame dei nemici. Israele non deve dimenticare che Dio ha personalmente preso in mano la storia del suo popolo e che questa storia è fondata sulla fedeltà del Dio fedele. Israele non deve dimenticarsi di Dio e non deve dimenticare che Dio, a sua volta, non si dimentica del suo popolo.
“Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne” (Es 12, 14).
In questo memoriale, Israele trova benedizione. La lode e la benedizione di Dio diventano benedizione per coloro che lo benedicono. La lode convinta e benedicente rivolta a Dio ritorna come benedizione all’uomo. E si volge a consolazione del popolo perché non si scoraggi, ma nelle vicende dolorose della storia sappia sempre confidare nelle promesse divine. La memoria grata dell’agire passato di Dio apre alla speranza e alla supplica.
Porta, Signore, a compimento ciò che hai cominciato! Donaci la piena e definitiva libertà!
La cena pasquale fu “mangiata” da Gesù con i suoi amici la sera prima della sua passione, “nella notte in cui veniva tradito” (1Cor 11, 23). In questo contesto pasquale, che per Gesù fu anche un contesto di tradimento, va necessariamente collocata e compresa la nuova Pasqua. Gesù ha versato il sangue nell’ora dell’immolazione degli agnelli. Egli è il nuovo e vero agnello che ha sparso il suo sangue per tutti noi.
Gesù ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli, liberamente, dando attuazione alla sua parola: “Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso” (Gv 10,18). Porgendo ai discepoli, il pane e il calice, sacramento del suo corpo e del suo sangue, egli dava reale compimento all’offerta della sua stessa la vita. L’antica Pasqua otteneva così il suo vero senso, il suo compimento e, insieme, il suo superamento.
L’agnello pasquale era l’espressione dell’attesa e della speranza in Qualcuno che avrebbe realizzato la speranza non solo del popolo di Israele ma le autentiche attese di verità degli uomini tutti e le speranze di pace dei popoli della terra.
Nella nuova Pasqua resta l’agnello e il tempio e, tuttavia, cambia sia l’agnello che il tempio.
Gesù Cristo stesso è il vero agnello atteso a redenzione e salvezza dell’intera umanità.
“Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1, 29).
Nel tempio si incontrava il Dio liberatore e fedele, il tempio di Gerusalemme era la sua casa tra gli uomini. Ora, è Gesù stesso il nuovo e vero tempio vivente, nel quale abita il Dio fedele e giusto, nel quale gli uomini possono incontrare il Dio giusto e fedele.
Il sangue rimanda all’amore di Colui che è Figlio di Dio ed è anche vero uomo. Gesù è dunque uno di noi, il suo sangue può redimere e salvare. L’amore in cui e con cui Cristo si dona liberamente al Padre per noi, è ciò che ci salva.
“Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13, 1).
La nostalgia israelitica rinnovata nell’immolazione annuale dell’agnello immacolato, trova risposta definitiva in Colui che è diventato per noi sia agnello che tempio.
Gesù Cristo è dunque la vittima di espiazione che ottiene salvezza, ma è anche il sacerdote che offre se stesso, l’altare su cui viene immolato l’agnello che è lui stesso, il tempio nuovo che emerge dalla tomba della morte ormai redenta.
Al centro della Pasqua nuova di Gesù sta la Croce. Da essa viene il dono sempre nuovo che Dio fa di se stesso all’umanità. La Croce parla del dono di sé che Cristo compie in perfetta libertà d’amore. La Croce richiama l’amore fino in fondo del Maestro e Signore.
“Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (Gv13,15).
Dalla Croce di Cristo viene il dono divino che rimane per sempre nell’Eucaristia, nella quale possiamo celebrare lungo il corso dei tempi la vera Pasqua del Signore.
Annunciamo la tua morte, Signore. Proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta.
L’Eucarestia è viva partecipazione, entro la presenza, dell’amore di Cristo. La preghiera di benedizione di Israele si sviluppa fino a diventare la nostra celebrazione eucaristica, in essa e con essa il Signore benedice i nostri doni – pane e vino – per donare in essi se stesso. E ci fa Chiesa.
“L’Eucaristia fa la Chiesa” (Henri de Lubac). L’Eucaristia infatti non solo è l’atto di tutto il popolo sacerdotale dei battezzati associati al Capo del corpo ecclesiale, ma ne è anche la “forma”, cioè il modello, il grembo in cui nasce e cresce la Chiesa stessa.
“Nella Santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e Pane vivo che, con la sua carne vivificata e vivificante per la forza dello Spirito Santo, che dà la vita agli uomini” (PO 5).
“In ogni comunità che partecipa all’altare, sotto la sacra presidenza del vescovo, viene offerto il simbolo di quella carità e unità del corpo mistico, senza la quale non può esserci salvezza. In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere e disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si costituisce la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Infatti la partecipazione del Corpo e del Sangue di Cristo altro non fa, se non che ci mutiamo in ciò che riceviamo” (LG 26).
Il Signore ci apre le porte del suo cuore perché sempre più profondamente possiamo entrare nel mistero meraviglioso e sorprendete dell’amore suo per noi. E ci rende veri adoratori in spirito e verità.
Il Signore ci attrae sempre di più nella e alla comunione con lui stesso e con i nostri fratelli di fede. E ci fa’ sempre più sua Chiesa tra gli uomini da lui amati e redenti.
Il Signore ci accompagna nel cammino terreno di ogni giorno perché possiamo noi avere i piedi ben piantati nei solchi inquieti della storia per fecondarli con la semente del Vangelo.
Il Signore ci aiuta dunque a non trattenere la vita per noi stessi, ma a donarla a lui per agire insieme con lui a vantaggio salvifico del mondo in cerca di verità e di vita. La vita vera può venire solo da Colui che è egli stesso la via, la verità e la vita. La vita infatti si vive, in verità e in soddisfacente intensità, solo nel dono di essa perché altri vivano e crescano nell’amore.
Allora, “che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore” (Sal 116, 12 – 13).
Amen.