Siamo strumenti di redenzione percorrendo insieme sentieri umanizzanti

Intervista a S.E. Mons. Giuseppe Giuliano

Il cammino, la vocazione, i giovani, il sinodo, la società, le periferie esistenziali, la comunicazione, al centro della conversazione con il vescovo Giuseppe, nel primo anno di episcopato (4 febbraio 2017-2018)

a cura di Piergiorgio Aquilino*
Camminare, in amicitia Jesu Christi, tutti insieme: Vescovo, clero e popolo santo di Dio. Eccellenza, possiamo dire che questo è stato un po’ il suo primo approccio e la sua prima indicazione ai fedeli tutti della diocesi. Quali frutti ha portato finora questo camminare insieme?

Parlare di frutti è un po’ prematuro, poiché i frutti, che coinvolgono le coscienze e gli animi delle persone, hanno lunghi tempi di maturazione: essi non sono immediati e poi i bilanci vanno affidati al cuore di Dio. Noi – vescovi, sacerdoti, Chiesa intera – siamo mandati nel mondo ad annunciare il Vangelo. La conversione dei cuori, la crescita interiore in umanità e fede è opera della grazia di Dio. Dobbiamo rispettare i ritmi della grazia del Signore ed anche della maturazione umana.

Se parlare di frutti è da un lato prematuro, dall’altro ci ricorda che è sempre bene lavorare a servizio del Regno di Dio, del Vangelo, con generosità e retta intenzione… poi il Signore farà lui!

“Grazia su grazia abbiamo ricevuto”. Lo Spirito suggerisce sempre i passi da muovere. E, ad onor del vero, tanti sono stati i passi di grazia di cui abbiamo potuto beneficiare. E il primo, forse, è stato proprio la nomina di un sacerdote di questa diocesi, don Ciro Fanelli, vicario generale, a vescovo di Melfi-Rapolla-Venosa. Attraverso la sua ordinazione cosa lo Spirito ha voluto dire a questa Chiesa di Lucera-Troia?

Intanto una curiosità che mi ha molto emozionato e della quale ringrazio molto anche don Ciro per la scelta della mia persona ad ordinarlo vescovo. Fino ad allora non avevo ancora ordinato nessuno: né diaconi, né sacerdoti. E la mia prima ordinazione è stata un’ordinazione episcopale. È qualcosa che mi riempie di stupore, di meraviglia, di rendimento di grazie per l’opera della grazia di Dio che si è realizzata in questa nostra Chiesa, nel dono che siamo stati chiamati a fare alla Chiesa sorella di Melfi-Rapolla-Venosa.

Che cosa dice questa ordinazione? L’elezione da parte del Signore, che tramite il ministero del Santo Padre ha scelto questo nostro amico e fratello sacerdote, don Ciro, quale vescovo, dice che questa è una Chiesa viva, una Chiesa vivace, una Chiesa feconda, una Chiesa che si apre ed è chiamata ad aprirsi sempre di più allo Spirito di Dio. Sarà anche piccola, come numero di abitanti, ma io penso che, a livello di piccolezza, siamo nell’ottica del Vangelo: Gesù sceglie le cose piccole e, forse, umanamente insignificanti, per poter realizzare la sua opera e le grandi cose. Di questo ne sono molto convito: facendo una battuta, possiamo dire che ci sono luoghi anche molto piccoli, al tempo di Gesù insignificanti – mi vengono in mente Nazareth, Betlemme – eppure in essi si sono verificati i prodigi di Dio. A noi sta il compito di aprirci alla grazia del Signore e di lasciarla fecondare in noi, nelle nostre comunità, nella nostra gente.

“Gesù che sceglie”… e, immagine del soffio dello Spirito, è stato la riapertura del seminario diocesano, con quattro giovani in discernimento vocazionale… e poi l’ordinazione diaconale di don Ivan e l’ammissione tra i candidati all’Ordine Sacro del giovane Davide. Una scelta difficile da maturare, soprattutto oggi, in questo che sembra essere contrario al tempo favorevole. Come spiegare le vele, facendo capire a questa società disorientata, ai giovani che oppongono resistenza agli ideali evangelici, che ne vale ancora la pena?

La domanda mi offre l’occasione per puntualizzare il pensiero, che ho potuto maturare lungo gli anni del mio ministero di rettore del seminario di Nola, di incaricato per la pastorale giovanile e nei luoghi in cui sono stato chiamato ad assistere ai prodigi della grazia del Signore operati nel cuore di tantissime persone, approdate al ministero ordinato, alla vita religiosa o consacrata, al matrimonio. Vedo una Chiesa che nasce, si fonda, si basa sulla vocazione di Dio: la vocazione alla vita, la vocazione alla fede, la vocazione ad un progetto nel quale concretizzare sia la vita che la fede. In quest’ottica, non poteva mancare la presenza anche minima, ma impegnativa, del seminario diocesano.

Ho sempre pensato, e penso, che una diocesi non può far a meno del seminario diocesano. Non tanto come luogo, come edificio, ma soprattutto come comunità, seppur piccola. E poi, sto cercando di dire, sia ai sacerdoti che ai nostri seminaristi, che sono tutti quanti parte del nostro seminario diocesano, anche quelli che frequentano il Maggiore a Molfetta e a Napoli: fanno tutti parte della comunità vocazionale del seminario diocesano di Lucera-Troia. E perché noi non possiamo permetterci di offrire quella formazione di cui oggi un prete ha bisogno, li mandiamo nei Seminari regionali. Ma sono e rimangono della comunità di questo seminario, cioè di questa Chiesa.

La Chiesa può fare a meno di tante cose, ma non può fare a meno di una comunità che prepari al ministero i preti del domani, incominciando appunto dal curare la fede, la maturazione umana, culturale e spirituale di coloro i quali si dichiarano disponibili al progetto di Dio per loro. Sia ben chiaro: il seminario diocesano è comunità insostituibile che prepara e che richiama oltretutto anche noi sacerdoti alla freschezza di quel sì che noi abbiamo detto anni fa e che siamo chiamati a ridire ogni giorno al Signore che ha conquistato e che conquista la nostra vita. La comunità del seminario serve per questi giovani che camminano.

In questo momento sono sette, quattro qui a Lucera, nell’anno propedeutico in preparazione agli studi filosofico-teologici, due a Molfetta e uno a Napoli. Ad essi si aggiunge Ivan che, da diacono – ordinato da poco, come hai richiamato – continua il suo cammino formativo per il ministero presbiterale.

Spero che attraverso la preghiera della Chiesa e la generosità dei giovani, il Signore voglia chiamare altri ragazzi, giovani, generosi e coraggiosi, per il servizio ministeriale a questa santa Chiesa di Lucera-Troia.

E proprio i giovani sono al centro di questa nostra conversazione. Attraverso la sua azione pastorale, lo Spirito ci parla e ci fa comprendere come sia sempre tempo favorevole e che i giovani devono esserne i protagonisti. Ecco che nel concreto ci propone, di pari passo con quello della Chiesa universale, un Sinodo diocesano dei/per/con i giovani. La chiamata, da incarnare nel tessuto quotidiano del proprio progetto di vita, è al centro delle tappe sinodali. Cosa dire ai giovani? Cosa comunicare? Chi proporre loro come modello?

Mi piace parlare di protagonismo dei giovani, ma attenti però: non è un protagonismo che vuole potenziare o sviluppare l’individualismo, già abbastanza diffuso e che già ha fatto tanti danni. Né tanto meno vuole favorire l’introversione, la chiusura o, peggio ancora, l’autoreferenzialità, che sembra essere una caratteristica dei giovani di oggi, che li blocca dinanzi anche alla realizzazione di un progetto di vita: ciò vale sia per il ministero sacerdotale, sia per la vita consacrata, sia per il matrimonio. L’autoreferenzialità, l’individualismo, la chiusura in se stessi – frutti della cultura contemporanea – vanno decisamente superati.

Quando parlo di protagonismo, parlo di un protagonismo, potremmo dire, evangelico, cristiano. E mi piace ripetere un’espressione: “Non c’è una libertà maggiore, non c’è un uomo più libero di chi è talmente libero da possedere se stesso per fare di se stesso un dono a Dio, perché Dio a sua volta faccia un dono di lui all’umanità”.

Quando parlo di protagonismo cristiano, parlo di una vita che si incarna nel dono, di una libertà che si vive fino in fondo, solo nel dono di sé, dell’amore.

Giovani e intergenerazionalità, è un altro punto: un rapporto quasi critico, spesso in conflitto per via dei nuovi modi di concepire il mondo. Può esserci una via di mezzo in tutto questo? E la Chiesa da che parte deve stare?

Io non parlerei di via di mezzo: una via di mezzo è sempre un adattamento.

Le crisi non si superano adattandosi ad esse, ma si superano balzando in avanti: il salto in lungo, il salto in alto della fede! Si esce dalla crisi se si prende in mano – ecco, in concreto, quel protagonismo di cui parlavamo – la propria vita, ci si riappropria di essa, la si vive come un dono, non da fruire individualisticamente, ma da condividere nel dono di sé.

Il problema non è la via di mezzo; la questione sta nel vivere fino in fondo, in verità, la propria vita. Abbiamo da dire agli uomini e alle donne di oggi che la verità di sé viene colta e accolta solo alla luce di Dio che è verità e che la verità di Dio non è indisponenza, non è oppressione, non è mortificazione, bensì sviluppo. Diceva papa Benedetto XVI che chi segue il Signore nella fede, non perde nulla di bello, di autentico, di pieno della sua propria vita e della sua propria umanità, tutt’altro; ma trova uno sviluppo sempre maggiore nell’amicizia con il Signore Gesù!

Ecco, torniamo a quegli uomini e donne di oggi. Oggi il mondo è complesso, forse perché un po’ troppo variegato. E tra i giovani ci sono tendenze con visioni più aperte rispetto al passato: penso a giovani coppie separate, figli costretti a più padri e madri, convivenze forzate, unioni civili (in Capitanata una delle prime è stata proprio qui a Lucera). La Chiesa ha il compito di stare anche da questa parte. Come è possibile pertanto far breccia nei cuori lacerati di questi giovani, così fortemente ostili, e come renderli partecipi in questo camminare insieme?

È indubbio che viviamo in un mondo complesso, perché articolato: oggi si parla di mondo pluralistico. In realtà, quel pluralismo che noi guardiamo, viviamo e che spesso subiamo, le cui conseguenze minano l’umanità dell’uomo, è un pluralismo sicuramente etico, ma, prima e più ancora, è un pluralismo antropologico.

A me piace vedere nell’elenco delle beatitudini di Gesù riportate da Matteo, in tutti quei Beati… beati… beati…, la proposta di un’umanità piena, felice, autentica. È forse qui che si gioca l’evangelizzazione e la nuova evangelizzazione: l’annuncio del kerigma apostolico, del Signore Risorto, morto per amore e risorto nell’amore, che ci dà la possibilità di una umanità di una qualità superiore.

L’uomo che gioca a fare dio, a sentirsi dio, attraverso i progressi talvolta sconsiderati e irresponsabili della scienza e della tecnologia, dichiara il fallimento di una visione antropologica saggia e veritiera.

Noi cristiani dobbiamo essere coraggiosi, ma anche accorti; teneri – direbbe papa Francesco –, ossia riflesso di quella tenerezza di Dio, ma anche audaci nel poter indicare le strade della vera pienezza dell’uomo, della vera felicità.

“Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei Cieli”, significa: “Beati coloro che sanno, si accorgono e vivono per quelli che sono”. Il povero in spirito è chi sa di non essere il Creatore, è quel figlio che sa di aver bisogno di un Padre buono, di un Padre Celeste, di un padre e di una madre teneri e forti allo stesso tempo, è colui che sa di essere compagno di strada, colui che si accoglie come fratello dell’umanità.

Tirare le conseguenze da questa visione antropologica dell’uomo che il Vangelo ci offre significa vivere fino in fondo nella concretezza dei giorni la propria vita.

La chiamata, da cui la vocazione, è anch’essa al centro di questo incontro. A fine novembre abbiamo vissuto un altro evento di singolare e pura grazia: l’arrivo in diocesi delle monache clarisse. Più volte Lei ha definito il monastero di Biccari come polmone spirituale per la nostra diocesi. Pensando ancora ai giovani: delle monache ritirate nella clausura orante, cosa possono comunicare loro? Può essere ancora attuale questo modo di vivere?

Sono contento di aver utilizzato quest’espressione abbastanza diffusa: polmone spirituale. E mi sento incoraggiato dal fatto che questa espressione l’abbia usata proprio il Papa in Perù nei giorni scorsi: i monasteri contemplativi sono i polmoni della Chiesa, ci fanno respirare. Un polmone sano, respira. Un polmone sano è di una Chiesa che respira. E la Chiesa vive se respira l’aria che è lo Spirito Santo, l’aria di Dio, l’aria che è Dio.

Queste monache stanno qui per impetrare ed invocare la misericordia, la tenerezza, la vicinanza, il perdono del nostro Dio su questo territorio e in questa Chiesa.

Le monache ci ricordano che il fine dell’uomo non è costituito da cose, ma che l’uomo è persona, che il nostro Dio è Persona: per Lui si può donare la vita, fino in fondo. Anzi, in Lui si trova quell’amicizia che riempie la vita.

Le monache ci ricordano quello che ci dicevamo prima: l’uomo non è il Padreterno o il Creatore, ma è una creatura, è figlio. Le Sorelle povere di santa Chiara, piene della spiritualità francescana, ci ricordano che Cristo è al centro e, nella minorità, cioè nella figliolanza di chi sa affidarsi ed abbandonarsi, ci ricordano che ciò che dà senso alla vita è ben altro da quello che oggi la società ci offre.

A ben guardare, la presenza delle monache ci fa intravvedere la possibilità di una nuova umanità, quella umanità che si fonda, che si radica sul nostro Dio che vuole l’uomo beato, felice.

Ed eccoci alla società! Spostando la nostra visuale sulla nostra società, in questo anno ci ha dato valida testimonianza del suo operato a favore di quelle periferie esistenziali tanto richiamate da papa Francesco. In particolare ci ha mostrato il volto di quella chiesa in uscita dal Santo Padre predicata e voluta. Ecco, quindi: dal suo arrivo in diocesi ha voluto proprio camminare incontro ai malati, agli emarginati, ai più soli, ai carcerati. E spesso, non manca di spezzare il Pane con loro. È d’altronde una scommessa evangelica: si dona con gioia proprio a chi non è in grado di poter ricambiare. Perché scommettere ancora oggi sugli ultimi?

Perché negli ultimi c’è il Signore, lì si incontra Gesù! Gesù si incontra nella sua Parola, si incontra nella celebrazione eucaristica, nelle celebrazioni delle liturgie della Chiesa, si incontra nei poveri e negli emarginati. È vero, il Papa insiste molto su questo, ma in realtà è il Vangelo a dircelo: “Ciò che avete fatto a uno di questi tra i miei più emarginati, l’avete fatto a me”.

Periodicamente, abbastanza costantemente, c’è questo rapporto non solo mio con i carcerati, ma della Chiesa, della nostra comunità cristiana. Cresce il numero dei volontari, cresce la sensibilità dei cristiani di questa terra nel rendere il reinserimento sociale dei carcerati meno duro e meno difficile. Abbiamo ottenuto – e di questo ringrazio le autorità competenti – alcuni locali in più, affinché i frati della basilica di San Francesco Antonio Fasani potessero disporre di qualche cella in più e, in esse, possano ospitare le famiglie che vengono a visitare i loro congiunti che vivono l’esperienza del carcere. Insomma, una Chiesa che vuole esserci, ma anche porre dei gesti molto concreti che dicono questa nostra volontà di essere presenti, con molta serenità.

Così anche l’ospedale. Questa è una bella occasione per ripetere una cosa che penso siamo tenuti a ripetere continuamente io, i sacerdoti, tutta la comunità cristiana. L’ospedale rischia la chiusura: di fronte a questa notizia si rimane sconcertati, per via delle strutture straordinariamente belle e all’avanguardia, per gli ottimi strumenti diagnostici e terapeutici presenti, per il personale medico e paramedico di una straordinaria disponibilità. No, non possiamo permettere che una struttura del genere, così piena e pulsante di umanità, venga chiusa! Ecco l’appello che continuamente rivolgo: una struttura del genere va potenziata, non può assolutamente essere chiusa, perché è nei nostri fratelli ammalati che noi incontriamo il Signore crocifisso, che continua oggi, assumendo come sempre su di sé le sofferenze umane, l’opera della redenzione dell’umanità. Siamo, perciò, strumenti di redenzione!

“Gesti di concretezza”. E veniamo proprio a questi gesti di concretezza nel nostro mondo ecclesiale ed in particolare nell’organizzazione pastorale di questa chiesa locale. Penso alle prime novità: le celebrazioni delle stationes quaresimali, la giornata coi maturandi, in estate gli esercizi spirituali per i laici, la Settimana Biblica annuale a fine anno pastorale, le lectiones d’avvento. Quali altri progetti sta pensando di aggiungere e di attuare in questa comunità diocesana per farla sentire maggiormente unita?

C’è un progetto generale di fondo: dare sempre più spazio al Signore. È Lui che, con il suo Spirito, converte, è Lui che, con la sua Parola, chiama. E allora questa Parola di Dio deve essere riportata nel cuore delle comunità e delle persone; la frequentazione del Libro Sacro – che è la Bibbia – è frequentazione di Cristo Gesù, che attraverso quelle parole non solo parla, ma cambia i nostri modi di vivere. Spero che, dal fare spazio al Signore nella nostra vita, le nostre comunità e la nostra società riescano a fare spazio alla presenza degli ultimi, ai bisogni degli emarginati, perché la nostra società conosca un cammino più umanizzante, più autentico, più vero. In definitiva, un cammino più a misura d’uomo.

Eccellenza, un’ultima domanda che è propria per noi del mondo delle comunicazioni sociali: un tema che ha avuto fortemente a cuore sin dal suo insediamento in diocesi. Il papa, proprio in questi giorni ci ha donato il Messaggio per la 52a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali dal titolo: «‘La verità vi farà liberi’ (Gv 8,32). Notizie false e giornalismo di pace». «Riguarda – riporta il Bollettino vaticano – le cosiddette “notizie false” o “fake news”, cioè le informazioni infondate che contribuiscono a generare e ad alimentare una forte polarizzazione delle opinioni». Oggi, la nostra diocesi gode di un unico polo laboratoriale – mensile, sito diocesano, social, televisione – in cui, camminando insieme, si cerca di garantire una giusta visibilità alla vita vera di questa Chiesa diocesana. Alla luce di questo, quali iniziative occorre porre ancora in essere per scampare il pericolo del mormorio, del chiacchiericcio e favorire piuttosto una comunicazione sempre più trasparente, una comunicazione vera?

Il messaggio del Santo Padre parla di notizie false: come si fa a non essere d’accordo su questo?

Le notizie false ingenerano confusione, contrasti: in tal caso, la parola, che è strumento di incontro, diventa strumento di scontro, di offesa.

Proporrei e desidererei una ascesi del linguaggio, una maggiore cura delle parole, perché la parola è strumento per incontrarsi, per comunicare, per dialogare, per ricercare, per manifestare le proprie idee, seppur diverse, ma sempre nell’ottica di una comunione da costruire giorno per giorno.

Le notizie false vanno contro la comunicazione, dunque, contro la comunione e, quindi, contro la verità; direi, ancor di più, con altri termini, contro la vivibilità. Noi viviamo un mondo che talvolta rischia di non essere vivibile, proprio a causa di parole lasciate in libera uscita e di menzogne ad arte propinate come notizie della ultim’ora.

Venendo al nostro territorio, personalmente ho un’altra preoccupazione. In teologia morale, a proposito della bugia, si parla di notizie false. Ma c’è anche un’altra modalità di propinare la falsità, la menzogna, ingenerando confusione e addirittura sospetto: questa è la locutio ambigua, ossia quel linguaggio che materialmente non dice il falso, ma permette che chi ascolta, capisca e percepisca il falso rispetto alla verità delle cose. Questa è, secondo me, una questione che, nei nostri ambienti, va tenuta sicuramente presente, sia da parte dei fruitori delle notizie, che devono cercare di essere molto avveduti e svegli – questo vale sia per le notizie che i media ci comunicano, che nei rapporti interpersonali –, sia da parte di chi comunica, che deve aver cura di non usare ambiguità, ma parole il cui vero significato sia comune e recepibile per tutti.

La locutio ambigua è vera e pura bugia, fa parte delle fake news.

Anche la modalità di comunicazione può ingenerare sospetti e la bugia crea, nella menzogna, un mondo sospettoso, dunque un mondo non vivibile.

Si tratta di una responsabilità molto chiara che i mezzi di comunicazione hanno, ma che abbiamo anche tutti noi nel linguaggio e nella comunicazione, sia interpersonale che sociale.

Eccellenza, in conclusione, al termine di questo primo anno di ministero episcopale qui tra noi, il nostro ringraziamento si traduce in augurio e preghiera per il prossimo ed i prossimi anni di episcopato, affinché, nell’amicizia di Gesù, possa continuare a farci camminare lungo sentieri di pura e singolare grazia che il Signore vorrà donarci… tutti insieme, sorretti dal soffio dello Spirito.

È importante, camminando insieme. Grazie a voi!