Note per le omelie delle celebrazioni presiedute

Il Vescovo nella Settimana Santa

Domenica delle Palme, 24 marzo 2024 – Lucera, Cattedrale

[Mc 14, 1 -15, 47
Fil 2, 6 – 11
dal Salmo 21
Is 50, 4 – 7]

Stiamo entrando, con questa celebrazione, nell’ora della luce e, nello stesso tempo, nell’ora del buio.
L’ora della luce perché è memoriale, più che esplicito, del Mistero che regge la vita e la missione della Chiesa e, anche, l’esistenza del mondo.
L’ora della luce perché è l’ora dell’amicizia divina per l’umanità, è l’ora della misericordia, è l’ora del perdono, insomma è l’ora dell’amore.
Ma anche l’ora delle tenebre, perché è l’ora della meschinità umana, l’ora del tradimento, l’ora del calcolo mercantile, l’ora della scaltrezza inconcludente e dell’ambizione individuale dell’uomo dinanzi al dono personale che Dio fa di se stesso per la pace e la salvezza dell’umanità.
È l’ora delle tenebre perché è l’ora di Giuda, ma è anche quella di Pietro e degli altri Nove. Solo uno ha retto l’amore divino ed è restato nella fedeltà del posto a cui è stato chiamato: il più giovane!
È l’ora delle tenebre perché è l’ora della disperazione. Gli altri hanno pianto, sono tornati, in qualche modo, pentiti, al Maestro. Giuda no. Lui ha conosciuto l’amicizia del Signore, ma non l’ha “ri-conosciuta”: era necessario il suo tradimento, la sua disperazione, la sua perdizione?
Ci inoltriamo, in fondo, nel mistero del male. Perché se è misterioso ed imperscrutabile l’amore nella sua luminosità, è anche misteriosa la chiusura all’amore nell’oscurità del rifiuto.
Solo la Croce mostra la verità della storia. La Croce come amore obbediente, la Croce come amore solidale, la Croce come sofferenza del Servo ma anche come gloria del Signore.
La salvezza, che il Messia realizza, non opprime, essa è dono di sé, ed è la strada del Regno che è nuovo perché si realizza non con la potenza, né con la forza e neppure con la ricchezza, così come si realizzano nella loro pedissequa monotonia i regni di questo mondo, stanco e stantio. Il Regno di Dio si realizza nel dono di sé, nella debolezza assunta come strategia di amicizia, nella piccolezza scelta come criterio di vita.
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo la condizione di servo, divenendo simile agli uomini (Fil 2, 6- 7).
La liturgia di questa domenica delle Palme si fa dunque, come sempre, preghiera, richiesta cioè di seguire Gesù fino alla Croce, ma per conoscere con lui, morto e risorto, la vita nuova della risurrezione.
Accogliamo così il Verbo di Dio che si avanza e riceviamo in noi stessi quel Dio che nessun luogo può contenere. Egli, che è la mansuetudine stessa, gode di venire a noi mansueto. Sale, per così dire, sopra il crepuscolo del nostro orgoglio, o meglio entra nell’ombra della nostra infinita bassezza, si fa nostro intimo, diventa uno di noi per sollevarci e ricondurci a sé (Andrea di Creta).
I rami di ulivo che ornano le nostre mani e, più ancora, la nostra vita indicano il sapore e la sostanza dell’amore che regge il mondo. Essi sono il sostegno nei momenti in cui la fede vacilla per l’impatto della Croce, quando l’ingiustizia, la violenza, la malvagità sembrano aver ragione.
I rami di ulivo sono come l’incoraggiamento a non cedere alle false immagini di Dio che spesso la nostra mente partorisce con atroce malizia.
Essi ci dicono che l’impotenza e la debolezza della Croce sono più forti della potenza e dell’astuzia del male e del peccato. I rami di ulivo ci dicono, ancora e per sempre, che Gesù non muore perché lo uccidono, muore perché lui si consegna con la sovrana libertà dell’amore.


Venerdì santo, 29 marzo 2024 – Troia, Concattedrale


[Gv 18, 1 – 19, 42
Ebr 4, 14 – 5, 9
dal Salmo 30
Is 52, 13 – 53, 12]

Solo la fede può leggere l’onnipotenza di Dio nell’impotenza della Croce. E’ la potenza dell’amore mostrato nell’impotenza dell’amore.
Gesù è il Figlio totalmente collegato, e strettamente legato nell’amore al Padre suo e nostro: egli ha talmente amato il Padre da accogliere liberamente il suo progetto d’amore «per noi uomini e per la nostra salvezza».
Pasqua rivela il paradosso del Dio amante e crocifisso, la sovrabbondanza della grazia dove c’è l’abbondanza del peccato. Pasqua mostra la forza nella debolezza, la vita nella morte, il sangue versato nell’aridità della storia, l’agnello immolato e mangiato.
Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto.
Guardando al Signore crocifisso, la Chiesa contempla la sua origine dal fianco squarciato del Signore che riposa sulla croce e così offre se stesso per la salvezza del mondo.
La profezia di Isaia lo aveva predetto: Ecco, il mio servo, avrà successo, sarà onorato, esaltato grandemente (Is 52, 13). Si tratta del successo nell’insuccesso della croce, dell’onore nel disonore della condanna, dell’esaltazione sul legno dell’ignominia.
Così la passione di Cristo Signore è liberazione dal non senso della morte, è salvezza dal male in tutte le sue manifestazioni, è rinascita a vita nuova, da figli nel Figlio di Dio.
Nel legno della Croce i cristiani sanno vedere il segno della regalità di Cristo. Ci si può dunque accostare con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia (Ebr 4, 16).
La Croce attesta e proclama l’inizio del mondo nuovo. Essa è il trono della nuova e regale umanità. Essa è carica di novità perché è il vero cominciamento del nuovo ordine della realtà.
Anche se tutto sembra finito e le forze del male sembrano avere prevalso, i segni che accompagnano la morte di Gesù lasciano trasparire la straordinaria novità della vita.
Il velo del tempio si squarcia indicando che l’antico tempio con i suoi ordinamenti è finito. Il tempio nuovo è il corpo di Cristo che il Padre celeste ricostruirà egli stesso con la risurrezione; e il primo ad entrare in questo tempio sarà un pagano, il centurione, per la sua, embrionale, professione di fede.
Sulla croce del Figlio di Dio nasce dunque la nuova umanità: il mistero della morte mostra il mistero della vita e della sua vittoriosa affermazione.
Con la passione del Signore si va al centro della fede per accogliere il progetto inedito e misterioso di Dio e adorare la signoria di Cristo Gesù.
Si tratta della santissima regalità che indica per quali strade, umanamente illogiche, passa la «gloria», e che diventa misura di confronto, di verifica, di discernimento nella ricerca della divina volontà per tutti e per ciascuno e mostra nel servizio ai fratelli il segreto della vita.
Perciò: Ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo perché con la tua santa Croce hai redento il mondo.

Al termine della processione in Lucera

Dalla lettera ai Filippesi (2, 5 – 11)
[5] Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, [6] il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; [7] ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, [8] umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.
[9] Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; [10] perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; [11] e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.

Gesù non muore perché lo uccidono, muore perché è lui stesso che «si consegna» con la sovrana libertà dell’amore e la dedizione totale della legge nuova.
Con questo amore supremo egli dona se stesso, perdendo se stesso, e diventa così solidale con tutte le umiliazioni, i dolori, i rifiuti patiti dall’uomo e dall’umanità lungo il corso dei secoli.
Questo amore infinito dà la misura dell’annientamento di Gesù e manifesta il rovesciamento delle logiche terrene: per cui la vera grandezza dell’uomo non consiste nel potere, nelle ricchezze, nella considerazione sociale, ma sta e si mostra nell’amore che condivide, che è solidale, che è vicino ai fratelli, che si fa servizio.
Il ricordo e la memoria di chi ci ha preceduto è sempre in benedizione se costui ha fatto del bene ed è vissuto di/nell’amore
Il Dio giusto si sottrae e sottrae la storia umana agli schemi di giustizia, che griderebbero la vendetta sui cattivi carnefici e sugli accusatori dell’Innocente: la giustizia divina si rivela perdonando e togliendo all’uccisore anche il peso del proprio peccato.
Dio vince il dolore e la morte non togliendoli dal cammino dell’uomo, ma assumendoli in sé e su di sé.
Gesù è il vinto che perdona il vincitore e lo libera dalle illusioni coltivate nella violenza mortale.
Con la croce, Gesù mostra come l’odio può essere vinto solo dall’amore. Con la croce, Gesù mostra la novità divina che si instaura nella storia in modo inedito ed impensato dalle meschinità umane.
La gratuità divina è il nuovo che avanza e prende il posto del vecchio e dello stantio dell’umanità. Anche oggi. Anche in quei luoghi in cui sembra prevalere la prepotenza e la voglia di violenza e di guerra.
Ecco il legno della croce, al quale fu appeso il Cristo, salvatore del mondo: Venite e con Maria, la madre sua e nostra, adoriamo.
Scenda, o Signore, la tua benedizione sul popolo che nella morte del tuo Unigenito contempla la sua nascita per il cielo e nella risurrezione vive la speranza della vita che non muore: la tua misericordia e la tua compassione accrescano la fede dei tuoi figli, rafforzino la loro speranza, dilatino la carità nei gesti concreti dell’amore. Per Cristo nostro Signore. Amen.


Al termine della processione detto del “Bacio”.
Troia, Pasqua 2024: 31 marzo 2024

L’inchino del figlio alla madre è segno dell’inchino dei figli di tutto il mondo alle madri di tutto il mondo. Esse aprono il grembo alla vita che viene da Dio, ne attendono lo sbocciare, ne curano la crescita e sempre si occupano del suo sviluppo.
L’incontro del figlio alla madre mostra la gratitudine dei figli del mondo intero alla trepidazione e al dono della maternità, segno della tenerezza di Dio e anche della maternità della Chiesa.
L’inchino di questo Figlio alla Madre mostra l’omaggio del Verbo creatore alla Madre creata per avvolgerlo di compassione e di vicinanza fin sotto la Croce ed esprimere così la dilatazione della complice comunanza, raggiungendo nella vita e per la vita gli uomini e le donne del mondo.
L’inchino del Cristo redentore alla Madre, prima tra i redenti, attesta l’eternità della vita di Dio che non si lascia sopraffare dalla morte e neppure soffocare dall’ombra della morte, ma è testimonianza della gioia della risurrezione finalmente realizzata e dono di speranza ai cuori inquieti e capricciosi degli uomini di oggi.
L’inchino del figlio alla madre, di questo Figlio risorto alla Madre in attesa di lui vivente, accompagna i passi terreni della Chiesa e la sostiene lungo il cammino nei versanti tortuosi della storia, la protegge dagli sbandamenti sempre possibili e ricorrenti, la purifica dalla meschinità e del fango di tanti suoi figli.
L’inchino del figlio alla madre vuole indicare anche la memoria grata dei figli verso le madri passate alla pienezza della vita di Dio; un ricordo che si fa suffragio nella speranza dell’eternità che non annulla ma rafforza i vincoli di affetto e di riconoscenza.
A lei, Sorella e Madre nostra, la lode del popolo dei risorti e, con la Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi, si eleva la preghiera consueta e familiare: Ave, Maria …


+ Giuseppe Giuliano,
vescovo di Lucera-Troia