Stupore, vicinanza, accompagnamento: il percorso di conversione pasquale per riappropriarci della vita

Messa del Crisma 2021: l’omelia


Letture

Is 61,1–9
Ap 1,5–8
Lc 4,16–21

1.
La quaresima ci ha insegnato a non scappare dal deserto.
A non fuggire dal deserto, anche con le sue ambiguità. Il deserto si presta infatti ad una duplice, possibile e contraddittoria, esperienza. Esso infatti può essere vissuto come luogo dell’aridità e della morte che cercano di sopraffare la vita. Oppure può essere esperito come fecondo ritorno all’essenziale e, dunque, verace possibilità di condivisione e di fraternità con i propri simili e di amorosa adorazione del Dio tre-volte-santo.

Nel tempo di Quaresima, lo Spirito Santo sospinge anche noi, come Gesù, ad entrare nel deserto. Non si tratta… di un luogo fisico, ma di una dimensione esistenziale in cui fare silenzio, metterci in ascolto della parola di Dio, «perché si compia in noi la vera conversione». Non avere paura del deserto, cercare momenti di più preghiera, di silenzio, di entrare dentro di noi. Non avere paura. Siamo chiamati a camminare sui sentieri di Dio.
(Papa Francesco)

La quaresima ci ha educato a saper attendere e riconoscere, anche nei nostri deserti personali e sociali, la presenza del Risorto e il suo passaggio nella nostra vita, a saper accogliere la grazia che sana le ferite profonde del cuore, a saper leggere la realtà nella verità del suo presentarsi. Un’attesa che si fa comprensione ed accoglienza del Regno di Dio che si mostra anche attraverso le righe storte ed inquiete del nostro tempo.
Non dobbiamo, dunque, evadere nelle fantasie delle nostre immaturità, né attardarci nelle meschinità del nostro animo, ma ci è chiesto di vivere, con giovanile agilità, nella certezza che rinvigorisce l’esistenza dell’uomo e dona consistenza alla storia. Ci è chiesto, cioè, di cogliere la bellezza ed il fascino della Pasqua, e di accoglierne la potenza e la grazia: la vita è ben più potente della morte!
La Pasqua ci dona questa certezza, la Pasqua è questa certezza: il deserto rifiorirà, i derelitti della terra troveranno giustizia, nessun gesto di amore servizievole andrà disperso, la morte non è l’ultima parola della storia, ma è il passaggio alla eternità beata della vita di Dio.
La Pasqua afferma la potenza dell’amore che vince persino il sepolcro con il tanfo mortale del suo chiuso. La Pasqua ci dona l’amore del nostro Dio: ci offre perciò la gioia che nasce dalla consapevolezza – tutta spirituale, tutta cioè nello Spirito e dallo Spirito di Dio – di esser voluti, amati, redenti.
La Pasqua ci mostra la verità e l’inesauribile forza della vita. Una benefica potenza da frequentare e da coltivare.
Alla luce della Parola di Dio, mi sembra di poter richiamare tre termini, sapidi di amore e di vita, tre parole che possono indicare un percorso di conversione pasquale alla vita per riappropriarci, nell’amore che è Dio, della nostra vita di cristiani. E, per noi presbiteri, della nostra vita sacerdotale.

2.
Un primo termine: stupore.
Ho paura delle persone che non si commuovono. Ho paura per un prete che ha perso il senso dello stupore e, di conseguenza, la passione per il Vangelo. A cominciare dallo stupore per la sua stessa vita.
Siamo stati voluti e voluti come figli e, come tali, eredi di umanità e di eternità.

Tutti siamo figli… La vita non ce la siamo data noi, ma l’abbiamo ricevuta (AL 188).

Il canto di Isaia che la liturgia ci offre oggi è denso di stupore, di adorante stupore per le opere di Dio, soprattutto per l’opera di Dio, oserei dire per il capolavoro di Dio, che ciascuno di noi è.

Is 61,1
Lo spirito del Signore Dio è su di me
perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;
mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,
a proclamare la libertà degli schiavi,
la scarcerazione dei prigionieri.

Noi siamo, oggi, immersi in una dinamica di morte che ci impedisce di cogliere la bellezza della vita.
Respiriamo morte. Così tentiamo, paradossalmente e disperatamente, di fuggire la morte. Ma i nostri tentativi di esorcizzarla falliscono miseramente perché sono simili all’illusione di chi non riesce a vedere la realtà e si rifugia nella chimera della finzione.
Si dice, non senza ragione, che viviamo una cultura “mortale”. La considerazione e la paura della morte guidano le nostre riflessioni e più ancora le nostre scelte. L’attaccamento smanioso al denaro, al potere, alla inconsistenza dell’io che cosa sono, se non segni di morte che debilitano la nostra esistenza?
Ci trattiamo, erroneamente, da “mortali”, da “figli di morte” ma in realtà non lo siamo. Perché siamo “vivi”, siamo “figli della vita” e chiamati con ostinata tenerezza alla pienezza della vita. Lo stupore della vita è la possibilità stessa dei nostri giorni.
Senza un briciolo di stupore per i miracoli che ci avvolgono e ci accompagnano, meraviglia per il miracolo che ciascuno di noi è e che si ripete ad ogni istante, non potremmo esistere.
Siamo vivi, frutto di una procreazione non solo biologica, ma anche generazionale e sapienziale. Siano stati chiamati alla vita dai nostri genitori ed immessi in un flusso di generazioni che hanno fatto e fanno la storia.
Siamo stati voluti alla vita dal Dio della vita, che ci ha concepito nel suo cuore, palpitante d’amore, fin dall’eternità.
Se anche i nostri genitori avessero fatto fatica ad accettarci o, addirittura, non ci avessero voluti, Qualcuno ci ha voluti, altrimenti non saremo affatto. Siamo stati voluti in irripetibile singolarità, non fatti in serie ma chiamati per nome ad uno ad uno.
Attraverso l’esperienza dolorosa e liberante della nascita, siamo stati generati alla libertà che è un nascere di continuo nella responsabilità che si riappropria della vita, propria ed altrui.
Siamo stati voluti vivi, siamo ogni giorno voluti vivi: è questa la “originaria” volontà di Dio. Essere vivi! In fondo la Pasqua è annuncio della vita che non muore: Perché cercare tra i morti Colui che è il vivente?
L’Olio dei catecumeni che benediremo tra poco è segno della vita che sempre fiorisce nel grembo materno ed è sempre pronta a sgattaiolare dalle grinfie malefiche del padrone della morte.
L’Olio dei catecumeni è segno della provvidenza e della sollecitudine con cui Dio onnipotente difende e sostiene coloro che lui ha chiamato alla vita e a cui, nel grembo della madre Chiesa, dona, con il battesimo, la vita eterna e piena che è la sua stessa vita.

Is 61,9
Sarà famosa tra i popoli la loro stirpe,
i loro discendenti tra le nazioni.
Coloro che li vedranno ne avranno stima,
perché essi sono la stirpe che il Signore ha benedetto.

L’Olio dei catecumeni è mezzo sacramentale con il quale il Signore concede energie e vigore a coloro che iniziano il cammino cristiano. E richiama i già battezzati alla grazia battesimale perché i discepoli di Cristo siano illuminati dalla sapienza soprannaturale, comprendano sempre più profondamente il Vangelo della salvezza, siano sostenuti dalla potenza divina nel vivere con impegno il dono della fede e gustino la gioiosa fierezza di essere parte viva della Chiesa.

3.
Una seconda parola è vicinanza.
Ho paura di chi ha scelto l’isolamento come modalità di esistenza. Ho paura per un prete che non sa farsi vicino alla sua gente, che non vuole “abitare” fra le persone a cui è mandato.
La prima grande testimonianza che il prete può offrire agli uomini e alle donne di oggi è quella di abitare tra di loro. Abitare nel senso di stare con la mente e con il cuore, non solo con il corpo, tra il gregge affidato. Si tratta dello “odore delle pecore” di cui parla il Papa.
Come Gesù, il Dio-con-noi, l’Emmanuele che venne ad abitare in mezzo a noi.
Nazaret, dice il luogo dove Gesù è cresciuto, il luogo della sua abitazione terrena, il luogo della sua identità storica. Il Nazareno così verrà chiamato, con il nome che gli ha dato la sua città, Nazaret in Galilea.
Lui è il Signore che si fa vicino donando la vita al Padre e agli uomini fratelli, lui è il Maestro che chiede ai suoi discepoli la testimonianza della fedeltà e dell’amore generoso.
Dall’evento della sua Pasqua, il tempo è stato inondato di grazia, è stato fatto tempo di Dio, cioè tempo di salvezza. Anche questo nostro tempo è davvero tempo di Dio.
Il nostro è, dunque, tempo di grazia, è kairòs. È cioè tempo propizio alla conversione che si declina adorando Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente! E crescendo nell’appartenenza a lui che è l’Alfa e l’Omega, Signore dei secoli e della storia.
Ciò significa curare lo sguardo per riuscire a vedere in azione il Dio della storia che attraversa e fa anche questa nostra storia, drammatica ed impegnativa, autentica occasione di redenzione e di vita.
Abitare i giorni che la Provvidenza ci dona è anche fare esperienza di ciò a cui non si è abituati, è imparare a vedere le “piazze” spesso confuse e tremolanti degli uomini di oggi, è desiderare l’apertura alle sorprese di Dio.

L’Olio degli Infermi che tra poco benediremo è il segno sacramentale della consolazione che viene da Dio per recare sollievo ai malati e liberarli dalla malattia, con l’angoscia e la sofferenza che l’accompagnano.

Rm 12,12–13
[12] Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, [13] solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità.

Quell’Olio è segno della vicinanza dei discepoli del Nazareno crocifisso e risorto ai fratelli e alle sorelle che sono nella sofferenza. È segno della compassione che anima l’agire della Chiesa, riverbero della compassione del suo Signore.
L’Olio degli infermi è dunque richiamo a non lasciare inevaso il grido di dolore che si leva da ogni parte della terra, ed interpella il cuore dei cristiani e del Popolo santo di Dio.

4.
La terza parola è accompagnamento.
Ho paura di coloro che preferiscono la comodità della poltrona alla fatica del cammino. Ho paura per un prete che non sa o non vuole imparare ad accompagnare i fratelli nell’arduo cammino della fede e della santità.
Accompagnare significa non vergognarsi di condividere le proprie e le altrui debolezze, né disdegnare di piangere con chi piange e di gioire con chi gioisce. Significa riconoscere le fatiche e le angustie, le conquiste e le speranze del proprio prossimo, ed avere il coraggio e la generosità di farle proprie.

Rm 12,14–15
[14] Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite.
[15] Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto.

Accompagnare porta ad affrontare le ansie di questo nostro tempo, senza chiudersi alle prospettive di futuro e di rinascita, che le divine promesse lasciano intravvedere. Accompagnare per cogliere le sfumature inedite del tempo presente, ed aprirsi al domani del Dio dell’impossibile.

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore
(GS 1).

Accompagnare significa esercitare la cordiale ospitalità basata sul riconoscimento dell’altrui dignità e dell’altrui libertà. Giocarsi la vita per la centralità della persona e di ogni persona, per la preziosità del suo personale progetto di vita, per la sua capacità di impegno e di responsabilità. Si tratta insomma di gareggiare nella stima vicendevole e fraterna.
Accompagnare è arte tipicamente sacerdotale perché consiste nel condividere la vita e comunicare il senso di vita, donando la propria vita nel martirio quotidiano dei giorni.

Is 61,3
Per allietare gli afflitti di Sion,
per dare loro una corona invece della cenere,
olio di letizia invece dell’abito da lutto,
canto di lode invece di un cuore mesto.
Essi si chiameranno querce di giustizia,
piantagione del Signore per manifestare la sua gloria.

Accompagnare è partecipare la gloria del Dio che sale sul patibolo della Croce e la potenza del suo amore senza limite alcuno.
Accompagnare è, nel servizio alla crescita dell’altro, dare gloria al Dio della pace e dell’amore.

Ap 1,5–6
[5] … Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, [6] che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.

L’uomo di oggi ha bisogno di essere ascoltato, incoraggiato, creduto, ed anche ripreso. Ha bisogno di qualcuno che gli apra nuove prospettive di esistenza e nuovi orizzonti di fraternità.
Alla tentazione di rintanarsi nel chiuso della propria camera, o nella prigione del proprio “privato”, occorre reagire con la scoperta della solidarietà e della condivisione. C’è struggente bisogno di chi sappia aiutare a reagire, di chi non si lascia guidare da interessi umani, ma dall’amore che intuisce, previene, si coinvolge.

Ecco, allora, il Crisma, olio misto a profumo, per la consacrazione e la partecipazione alla missione regale di Cristo redentore.
La Chiesa innalza il gioioso canto di lode al suo Dio Trinità di infinito amore, che dall’olio fluente trae per gli uomini credenti il dono del Crisma, olio impregnato di profumo, potenza dello Spirito e della grazia che emana da Cristo e consacra i sacerdoti, i re, i profeti e i martiri.

Is 61,6
Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore,
ministri del nostro Dio sarete detti.
Vi godrete i beni delle nazioni,
trarrete vanto dalle loro ricchezze.

L’unzione di questo olio profumato santifica coloro che il Signore chiama alla fede e alla testimonianza del Vangelo. L’unzione crismale libera dalla nativa corruzione, consacra tempio della magnificenza, perché i cristiani spandano nel mondo il profumo di una vita santa e siano così, già oggi, partecipi della vita eterna per poi essere pienamente commensali al banchetto della gloria.

Rm 12,16–18
[16] Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi.
[17] Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini.
[18] Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti.

Stupore, vicinanza, accompagnamento. Perché anche oggi, con gli occhi fissi su di lui, Signore e Re, si compia la Scrittura che abbiamo ascoltato. Si compia nella vita della nostra Chiesa di Lucera-Troia. Si compia nella vita dei credenti. E si compia nella vita di noi presbiteri, per la nostra pace e a vantaggio dell’intera umanità.

5.
Per il mattino di Pasqua

I.
Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Andrò in giro per le strade
zufolando, così,
fino a che gli altri dicano è pazzo!
E mi fermerò soprattutto coi bambini
a giocare in periferia,
e poi lascerò un fiore
ad ogni finestra dei poveri
e saluterò chiunque incontrerò per via
inchinandomi fino a terra.
E poi suonerò con le mie mani
le campane sulla torre
a più riprese
finché non sarò esausto.
E a chiunque venga
– anche al ricco – dirò:
siedi alla mia mensa,
(anche il ricco è un povero uomo).
E dirò a tutti:
avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso.

II
Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Tutto è suo dono
eccetto il nostro peccato.
Ecco, gli darò un’icona
dove lui – bambino – guarda
agli occhi di sua madre:
così dimenticherà ogni cosa.
Gli raccoglierò dal prato
una goccia di rugiada
– è già primavera
ancora primavera
una cosa insperata
non meritata
una cosa che non ha parole;
e poi gli dirò d’indovinare
se sia una lacrima
o una perla di sole
o una goccia di rugiada.
E dirò alla gente:
avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso.

III
Io vorrei donare una cosa al Signore,
non so che cosa.
Non credo più neppure alle mie lacrime,
e queste gioie sono tutte povere:
metterò un garofano rosso sul balcone
canterò una canzone
tutta per lui solo.
Andrò nel bosco questa notte
e abbraccerò gli alberi
e starò in ascolto dell’usignolo,
quell’usignolo che canta sempre solo
da mezzanotte all’alba.
E poi andrò a lavarmi nel fiume
e all’alba passerò sulle porte
di tutti i miei fratelli
e dirò a ogni casa: “pace!”
e poi cospargerò la terra
d’acqua benedetta in direzione
dei quattro punti dell’universo,
poi non lascerò mai morire
la lampada dell’altare
e ogni domenica mi vestirò di bianco.

IV
Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
E non piangerò più
non piangerò più inutilmente;
dirò solo: avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso
poi non dirò più niente. (David Maria Turoldo)

Lucera, Basilica Cattedrale, 31 marzo 2021, mercoledì santo

+ Giuseppe Giuliano,
vescovo di Lucera-Troia