Lucera, Cattedrale, 30 maggio 2020

Omelia del Vescovo per la Messa del Crisma

[Letture:
Is 61,1-3.6.8b-9
dal Salmo 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21
]

1.
Sembra che stiamo uscendo dal tunnel. Il buio, esteriore ed interiore, di questi mesi ci ha provati, e ancora ci ferisce, non poco.
Vedere le nostre parrocchie, sempre così vivaci ed affaccendate, spopolarsi di vita ha messo a dura prova la nostra pazienza e, per alcuni di noi, anche la speranza.
C’è stato qualcuno tra di noi che si è lasciato andare, lo scoraggiamento ha finito di svuotare il cuore, fino a renderlo disponibile per surrogati deprimenti. Qualcuno ha pensato – e spero non stia ancora pensando – ad altre strade da percorrere, in un cambiamento di rotta che sa di timoroso abbandono se non proprio di codardia.
Una cosa è certa: la pandemia ha fatto scoprire le fragilità di tutti noi, specialmente di chi sembrava sicuro di sé in una presunzione senza fondamento.
Già prima del virus, stavamo attraversando un notevole cambiamento sociale ed ecclesiale, lo scoppiare dell’epidemia ha accelerato e forse ingigantito questa profonda trasformazione. A cominciare, e non è poco, dal livello della consapevolezza.

2.
Il Signore Gesù ci ha resi partecipi della sua consacrazione. Con l’unzione dello Spirito Santo ci rende testimoni qualificati della sua opera di salvezza ed amministratori della grazia divina che salva anche solo sfiorando.
Noi non siamo i padroni della grazia – mi diceva un prete non più giovane, evidentemente ben ferrato in teologia – ne siamo gli amministratori, a noi è chiesta la fedeltà degli amici devoti ed affidabili. Abbiamo tra le mani non nostre proprietà, ma la grazia divina da dispensare con magnanimità ed abbondanza.
Il Signore ci ha dunque consacrato con l’unzione; ci ha mandato a portare il lieto annuncio della consolazione ai miseri e a partecipare ai cuori spezzati la speranza e la gioia di quelli che da Dio sono amati.
Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore,
ministri del nostro Dio sarete detti.

È vero. Scelti e mandati per una missione sublime e coinvolgente. Ma pure bisognosi dell’annuncio gioioso e liberante dell’amore.
Anche noi abbiamo infatti bisogno dell’unzione dell’olio che fa brillare il volto e il cuore, perché anche noi siamo mendicanti di misericordia e di speranza. Anche noi, come ogni cristiano, anzi come ogni essere umano, siamo deboli e fragili. Una fragilità che ci porta a cantare, come abbiamo fatto all’inizio di questa celebrazione
Riconoscete che il Signore è Dio,
Egli ci ha fatti e noi siamo suoi.

Anche noi abbiamo bisogno di conoscere, con il cuore e con la mente: non solo con la mente, ma soprattutto con il cuore perché le cose vere si conoscono con il cuore. Anche noi abbiamo bisogno dunque di riconoscere che Dio è il nostro Dio, il fondamento della nostra esistenza. A lui, e solo a lui, spetta il posto centrale dell’intera nostra esistenza.
Si accostò uno degli scribi che li aveva uditi discutere, e, visto come aveva loro ben risposto, gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”.
Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore;amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.
E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi”
(Mc 12,28-31).
Talvolta dimentichiamo la realtà di cui siamo impastati. Siamo figli della terra che ci ha generati, non veniamo “dalla luna”, non siamo degli eroi.
Anche noi presbiteri siamo poveri peccatori. Ciò significa che anche noi abbiamo bisogno di quel Qualcuno onnipotente nell’amore che fascia le piaghe dei cuori infranti, che realizza in noi e per noi la libertà dei figli e degli amici, che ci tira fuori dalle carcerazioni in cui noi stessi ci siamo rinchiusi.
Abbiamo bisogno di essere rivestiti della veste di lode invece di uno spirito mesto. Il Signore non va alla ricerca di superuomini, né li vuole. Egli cerca uomini in carne ed ossa, esseri umani ai quali affidare la sua grazia per la stessa umanità di cui essi stessi fanno parte. Uomini che sanno dare voce alle angosce dell’umanità e presentarle a lui. Come nel grido che ha accompagnato tanta parte della nostra preghiera di questi giorni: Quando finirà? E come finirà? Fino a quando, Signore?
Così a noi è chiesto di tener desto il senso dell’attesa. Un’attesa che ci tiene svegli pur nella notte buia del mondo, un’attesa nutrita di speranza e di fatica a servizio del Regno di Dio tra gli uomini. Anche nella/sulla croce, quando l’attesa è travolgente e sconvolgente.
A noi sono richiesti coraggio e soprattutto molta generosità. Il coraggio e la generosità delle sentinelle ben sveglie e dunque agili e sapienti nel cogliere le luci ed anche le ombre che avanzano, pronte a discernere il sentiero per i passi dell’umanità che ci viene affidata.
Senza il coraggio della fede e la generosità dell’amore non ci si fa preti, specialmente oggi, e non si persevera nel servizio ministeriale che, con tanta fiducia, il Signore ci ha affidato ed ogni giorno ci affida nel servizio alla santa sua Chiesa.

3.
Vi ho seguito in questi giorni di “clausura”, ho seguito voi che siete i miei fratelli, più che confratelli. Con trepidazione, devo essere sincero, con apprensione e partecipazione. Chiedendomi, non di rado, se questa dolorosa vicenda ci stava insegnando qualcosa di buono, perché negli eventi anche in quelli più crudi e dirompenti c’è sempre qualcosa di buono da scoprire, sempre ci deve essere quel qualcosa di buono da sviluppare.
Ecco, se ci penso, a me la vicenda nella quale ci troviamo ancora immersi ha insegnato la inderogabile necessità della grazia di Dio per la mia vita e per il mio servizio ecclesiale. Di mio c’è davvero poco o addirittura nulla di quel qualcosa di buono che riesco ad essere e a compiere.
Ho bisogno che il dipanarsi della mia esistenza proceda “con gli occhi fissi su di lui”. Perché anche per me si compia la Scrittura tante volte ascoltata. Lasciato in balia di me stesso rischio infatti di perdermi e di disperdermi nelle cose del mio tanto, spesso inutile, da fare. E il mio cuore si scioglie nelle fasulle sicurezze di quell’egocentrismo tipico di chi gira su se stesso come una trottola.
Sì, Amen! Dice il Signore Dio: io sono l’Alfa e l’Omèga,
Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!

Quante volte, lungo il mio non breve cammino ministeriale, ho invocato la grazia del Signore, cioè la sua salvatrice e benefica presenza, per le persone a me affidate! Ebbene in questi giorni ho imparato o, meglio, ho re-imparato, con una certa fatica per la verità, ad invocare anche per me e per i miei giorni la grazia divina apportatrice di perdono e di salvezza.
Quante volte ho spezzato il Pane della vita!
Eppure in questo mio oggi, incerto e titubante, mi sono accorto, con stupore e gratitudine, di avere una straordinaria fame del Pane che è pane di cielo e di vita per i miei pensieri e i miei sentimenti che sanno troppo di terra.
Quante volte ho alzato la mano per invocare e donare il perdono dei peccati! Ebbene mi sono riscoperto felice nel ritrovarmi sotto la mano di chi invocava per me la misericordia e la pace.
Ho anche visto con sgomento la fila dei camion militari con le bare portate alla sepoltura. E ho pensato agli ultimi momenti terreni di quei fratelli e di quelle sorelle; momenti vissuti nella solitudine asettica della rianimazione in ospedale, e ho anche pensato ai miei morti a cui ho avuto la consolazione di prestare assistenza.
Ho pensato alla mia mamma, morta a casa fra le mie braccia e nell’invocazione familiare alla Madonna. E ho pensato anche a me, alla mia morte, che prima o poi dovrà venire: ho bisogno della tenerezza divina e della solidarietà dei fratelli per morire nella pace a questo mondo e risorgere nella pace senza fine dell’eternità.
Ho pensato alle illusioni che non di rado accompagnano i pensieri del mio cuore. Ho pensato ai desideri dell’inquietudine che non risparmia alcuno. Ho pensato e ripensato agli scatti di superbia che non sono mancati né mancano lungo lo scorrere delle mie giornate.
Noi sacerdoti corriamo il rischio di dimenticare la realtà del dolore e della morte, corriamo il rischio di dimenticare le realtà più squisitamente umane, quelle più comuni alla vita degli uomini comuni. E perdiamo troppo facilmente l’abitudine alle “cose di Dio”, privandoci della gioia delle sorprese di Dio.

4.
Nei lunghi giorni di solitudine ho gustato il silenzio pregno della presenza divina ma ho anche vissuto, io come tanti di voi, la tentazione dell’abbandono e dell’isolamento. Ebbene la Parola del Signore è corsa in mio aiuto e a mia salvezza. Per ricordarmi che “io non sono solo”, che il cristiano e, a maggior ragione, il prete non è mai solo ma sta sempre “al caldo e al sicuro” nelle mani del suo Dio e immerso in un popolo santo.
Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io – dice il Signore Gesù –non sono solo, perché il Padre è con me. Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo! (Gv 16,32-33).
Ecco, la pandemia ci ha portato e ci porta a riappropriarci della nostra umanità, ferita e sanguinante, ma anche voluta e salvata. Il virus ci ha infatti ricordato che nessuno nasce o vive “a caso”, ma che ciascuno di noi è stato voluto sin dall’eternità da quella Sapienza, che ha posto lo sguardo sulle nostre persone prima ancora che venissero alla luce.
“Mi fu rivolta la parola del Signore: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni”.
Risposi: “Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare,perché sono giovane”.
Ma il Signore mi disse: “Non dire: Sono giovane, ma và da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò. Non temerli, perché io sono con te per proteggerti”. Oracolo del Signore”
(Ger 1,4-8).
Se anche qualcuno di noi avesse dovuto soffrire il rifiuto da parte di chi aveva tutto il diritto di essere amato, sappia che una mano paterno/materna sempre e da sempre lo ha accarezzato e sostenuto.
Il virus ci ha mostrato la necessità e la bellezza della fede, da non dare troppo per scontata ma da invocare e da riafferrare ogni giorno quale forza per i giorni ed anche per la solitudine dei deserti e per il buio delle notti.
Ebbene, parafrasando sant’Agostino, possiamo affermare con commozione e sicurezza: Se per voi, uomini e donne, siamo senza alcun merito nostro pur sempre pastori, con voi siamo senz’altro solidali fratelli in quanto semplicemente e stupendamente esseri umani.
E poi la preghiera.
Più di un sacerdote mi ha detto di aver riscoperto il breviario, di aver riscoperto il rosario. Se ne era dimenticato. Si era dimenticato, o forse non aveva mai provato la gioia di una vita semplice e regolata, scandita dalle Ore celebrate. La solitudine e il silenzio di questi giorni lo ha come costretto a cercare e riprendere il Libro delle Ore, ed anche la corona che non sgranava più da tempo. Da troppo tempo.
E lo studio.
Un confratello anziano mi ha confidato che ha ripreso alcuni libri che aveva accatastato in un angolo della sala da pranzo. Pensava – mi ha detto – di portarli da qualche parte, e invece il virus gliene ha fatto leggere alcuni.
Finanche il denaro.
La sicurezza in esso riposta si è rivelata sciocca e traballante.

5.
L’olio che stiamo per benedire e che sarà di benedizione nelle nostre parrocchie ci dice che siamo la Chiesa santa di Dio che cammina tra la gente di Lucera-Troia e il suo territorio.
Gli oli santi benedetti dal Vescovo, attorniato dal suo presbiterio, riaffermano quel legame sacramentale che è indispensabile per vivere e crescere nella Chiesa così come il Signore Gesù l’ha pensata e voluta.
Riusciremo a rendere ragione di essere la Chiesa di Cristo Signore tra questa gente, che poi è la nostra gente?
E come potremo far questo senza quei legami di comunione ecclesiale che ci uniscono al santo Popolo di Dio, a cominciare dal Vescovo e dai confratelli?
La necessaria libertà pastorale non va mai confusa con l’assoluta autonomia da tutto e da tutti. Ciascuno, con i propri doni, è chiamato a vivere, nell’effettiva comunione e condivisione missionaria, la vicenda ecclesiale di questo tempo.
Così il “bene-essere” della diocesi ridonda in vero “bene-essere” sulle parrocchie e nelle realtà ecclesiali.
Molte volte mi sono chiesto: Può esistere una parrocchia senza la diocesi? Può esistere un prete in perenne conflitto o in permanente alternativa con il suo Vescovo?
Mi sono detto: guarda che la diocesi non è il tuo feudo, non è il feudo del vescovo, così come la parrocchia non è il feudo del parroco.
Il gioco di Penelope, tessere cioè dinanzi al mondo e disfare comunione alle spalle di chi ci si proclama servizievoli e devoti collaboratori, non si addice proprio agli autentici discepoli del Signore Gesù.
“Il vescovo, insignito della pienezza del sacramento dell’ordine, è «l’economo della grazia del supremo sacerdozio» specialmente nell’eucaristia, che offre egli stesso o fa offrire e della quale la Chiesa continuamente vive e cresce. Questa Chiesa di Cristo è veramente presente nelle legittime comunità locali di fedeli, le quali, unite ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono, ciascuna nel proprio territorio, il popolo nuovo chiamato da Dio nello Spirito Santo” (LG 26).
Il Concilio Ecumenico Vaticano II ci vorrebbe educare a considerare la Chiesa locale – pensate un po’: sì, proprio la nostra Chiesa di Lucera-Troia – come un “evento” in cui si incarna e si realizza il mistero stesso della Chiesa di Cristo.

Potrei continuare. Mi fermo qui, con ancora una domanda rivolta innanzitutto a me stesso: Vuoi vedere che il virus che tentava di distruggere qualcosa di me, ha invece realizzato qualcosa di buono, almeno per me, ad onore e gloria del mio amico e signore Gesù Cristo?
Così chiedo la grazia per me, per noi; la grazia di non vanificare questi giorni di fatica, di non dimenticare queste provvidenziali – sì, provvidenziali! – esperienze di vita e di fede, esperienze della bellezza della vita e del bene prezioso della fede.
Perciò, amici e fratelli,
grazia a voi e pace da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.

+ Giuseppe Giuliano,
vescovo di Lucera-Troia