Cattedrale di Lucera, mercoledì santo, 27 marzo 2024
[Letture:
Lc 4,16-21
Ap 1,5-8
Salmo 88
Is 61,1-8]
Come sempre, vorrei fissare con voi lo sguardo su Gesù, il Pastore buono che vede e soccorre l’uomo, ogni uomo, specialmente quando costui si riconosce fragile e confessa di essere peccatore.
Quest’anno vorrei fissare con voi lo sguardo su Gesù che, da buon samaritano, incontra l’uomo bisognoso, soccorre l’uomo ammalato e si prende cura delle sue ferite e del suo dolore con «l’olio della consolazione e il vino della speranza».
L’esperienza dell’ospedale, della malattia, misteriosa ed invadente, personalmente vissuta in questo anno passato mi spinge ad ascoltare e ad interrogare la Parola di Dio per cogliere in essa la luce per quanto mi è accaduto, accomunandomi a tanti uomini e donne di questo nostro tempo strano ed inquieto. E facendomi anche capire, a livello esperienziale, il significato pregnante del termine “paziente” che viene attribuito ai malati, ai quali è richiesta la pazienza nei riguardi della malattia, ma anche nei riguardi di chi ha il compito della cura.
Gesù Cristo è il medico delle anime e anche dei corpi, «il testimone fedele» (Ap 3,14) della presenza salvifica di Dio nel mondo, a vantaggio dell’uomo nella interezza del suo essere personale.
È lui stesso a suggerire, in qualche modo, le risposte alle domande cruciali dell’esistenza.
Come rendere concreto oggi il suo annuncio di salvezza?
Come recepire il suo messaggio di guarigione e di liberazione?
Come tradurre il suo Vangelo in accoglienza di lui anche nell’esperienza della malattia senza vanificarne l’insegnamento di vita?
Come accompagnare la persona malata in modo da tutelarne e da promuoverne la dignità con la chiamata alla santità e, dunque, con il grande valore della sua stessa vita terrena?
Lo straordinario sviluppo delle tecnologie biomediche ha accresciuto enormemente le capacità terapeutiche della medicina. Non possiamo non essere grati agli operatori scientifici che consumano la propria vita nella ricerca e nel tentativo di lenire le altrui sofferenze. Non si può non guardare con fiducia alla ricerca scientifica e vedere in essa una provvidenziale opportunità di servizio al bene integrale della vita e della dignità di ogni essere umano.
Tuttavia, i progressi della medicina non sono di per sé determinanti per qualificare il senso ed evidenziare il valore della umana esistenza. Ogni progresso sanitario richiede, infatti, una crescente e sapiente capacità di discernimento per evitare un utilizzo disumanizzante delle tecnologie, soprattutto nelle fasi conclusive del cammino terreno.
Inoltre, la gestione organizzativa ed elevata dei sistemi socio-sanitari possono ridurre la relazione tra medico e paziente ad un rapporto meramente tecnico e contrattuale, basta considerare, a questo riguardo, le varie forme di suicidio assistito e di eutanasia volontaria dei malati più indifesi e gravi. Queste pratiche disumane e disumanizzanti negano i termini antropologici, etici e giuridici delle scelte di vita dei malati, e oscurano in maniera preoccupante il valore della vita nella malattia, il senso della sofferenza e del tempo che precede la morte. Oltre che ingenerare crescenti sospetti circa la medicina che da vera e propria arte, l’arte medica, si può tramutare in prassi offensiva, tutt’altro che di aiuto all’uomo ammalato.
Il dolore e la morte non sono né possono essere i criteri ultimi che misurano la dignità umana propria di ogni persona.
L’uomo, in qualunque condizione fisica o psichica si trova, mantiene, infatti, la sua dignità originaria di essere creato a immagine di Dio. Egli è sempre chiamato a vivere e a crescere nello splendore divino perché è stato voluto, personalmente, come «immagine e gloria di Dio».
La sua dignità sta in questa vocazione di creatura; e la Pasqua ci dice anche la sua realtà di creatura redenta. L’olio dei catecumeni, che tra poco benediremo, ci ricorda il permanente intervento divino di liberare l’uomo da ogni forma di schiavitù, specialmente quella del male e del peccato.
Dio si è fatto uomo per salvarci, rendendoci cioè accessibile la redenzione ed offrendoci la comunione con lui: risiede qui il fondamento ultimo della bellezza e della consistenza della realtà umana.
È, allora, missione propria della Chiesa accompagnare con sollecitudine e misericordia le persone più deboli e fragili nelle loro malattie, nel loro dolore, per mantenere in esse la speranza teologale e aprire il loro animo alla salvezza di Dio: il sacramento dell’Unzione dei malati ha questa specifica funzione.
La Chiesa è chiesa di Gesù Cristo, nella misura in cui considera e vive la concreta attenzione ai malati nel corpo e nello spirito, attenzione che è parte integrante e qualificante della sua missione.
Questa prospettiva missionaria di comunione e di solidarietà tra gli uomini permette di superare le varie tentazioni di individualismo che serpeggiano nell’attuale e diffusa cultura materialista. A cominciare dalla conversione del cuore e dello sguardo: molte volte infatti si guarda ma non si vede, si sente ma non si ascolta, si vive ma non si partecipa. Manca la compassione, senza la quale si passa oltre, e non ci si ferma né si cura il fratello bisognoso e fragile, specie quello ammalato.
Applicando a sé le profezie di Isaia, Gesù rivela il senso della sua missione salvifica tra gli uomini di tutti i tempi della storia umana. E spiega così la testimonianza cristiana e ministeriale che coinvolge i cristiani con il sacramento del battesimo e con quello della cresima, e i ministri consacrati con il sacramento dell’Ordine.
Il crisma che “confezioniamo” in questa liturgia ribadisce la pregnanza missionaria del cammino cristiano.
Lo Spirito del Signore è sopra di me;
e per questo mi ha consacrato con l’unzione
mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi
e proclamare l’anno di grazia del Signore.
(Lc 4,18-19)
In Gesù Signore si è compiuta e si compie questa Scrittura: lui è infatti ripieno di Spirito Santo, egli è il datore dello Spirito di vita ed è venuto tra gli uomini, Dio-con-noi, per recare ai poveri il lieto annuncio della salvezza, per proclamare ai prigionieri, in ogni forma di schiavitù, la liberazione, per mostrare ai ciechi il senso e il sentiero della vita, per realizzare nel cuore degli oppressi la libertà vera e duratura.
In questa ottica evangelica si coglie bene la vita umana come un bene e un dono altissimo, che va sempre e comunque riconosciuto, e sempre e comunque tutelato e protetto.
Ogni uomo, creato da Dio, possiede una dignità naturale che si basa sulla sua vocazione trascendente, a sua volta fondata sul rapporto unico con Colui che è l’autore della vita.
La Chiesa è, dunque, sempre pronta ed attenta a collaborare, anche con i credenti di altre religioni e i non credenti, purché venga rispettata la dignità della vita umana, fino alle fasi estreme della malattia, della sofferenza e della morte.
Dio Creatore, infatti, offre all’uomo la vita nella sua dignità come un dono prezioso da custodire e da proteggere, da sviluppare fino a renderne conto ultimamente a lui.
La Chiesa attesta il senso positivo della vita umana come un valore già percepibile dalla retta ragione che, anche alla luce della fede, conferma e valorizza nella sua inalienabile dignità. Un valore talmente alto da impedire ogni tentativo di schiavitù e, molto di più, ogni attentato diretto alla vita di un essere umano.
Pertanto, sopprimere un malato, anche su sua richiesta, non significa affatto riconoscere autonomia né valorizzarla, ma al contrario significa negare il valore della sua libertà e della sua dignità, significa decidere arbitrariamente al posto di Dio il percorso della vita e il momento della morte.
Perciò la Chiesa non si stanca di ripetere che l’aborto, l’eutanasia e il suicidio volontario inquinano la civiltà umana, infangano coloro che così si comportano più ancora di quelli che ne subiscono le azioni. Queste pratiche di morte disonorano grandemente sia l’uomo creatura sia il Creatore, Signore della vita.
In questa celebrazione esaltiamo i prodotti della terra, e della nostra terra: il grano, l’olio e il vino; e li assumiamo a segno di salvezza per la celebrazione dei sacramenti. In questa solenne liturgia vogliamo così riaffermare il rendimento di grazie che la Chiesa eleva al Creatore per i doni che rendono possibili i giorni terreni e confessare, ancora, il valore della vita umana, della nostra vita, che pur tra i limiti e le fragilità che l’accompagnano ci apre ai desideri e alla chiamata trascendente di Dio, per noi e per il mondo.
Perciò canterò in eterno le grazie del Signore; di generazione in generazione annunzierò la sua fedeltà (Sal 89,2).
In questo canto di grazie sta il segreto della riuscita del ministero che è stato affidato a noi ministri del Signore nella santa Chiesa e che oggi vogliamo accogliere di nuovo nella realtà che esso è: un dono immeritato, straordinario, sorprendente, gratificante.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen (Ap 1,6).
Allora, che il Signore allarghi il nostro cuore di preti, perché quelli che incontriamo possano trovare in esso almeno un po’ di spazio.
Così che possiamo essere, noi sacerdoti, un piccolo ma desiderato pezzo di cielo in cui il Signore si mostra al nostro prossimo.
Così che possiamo essere benedizione, pur in mezzo alle maledizioni e alle contraddizioni del mondo.
La salvezza è spazio di Dio che si insinua e si dilata tra le angustie e le meschinità degli uomini e le riempie di pace. Se il peccato è, infatti, mancanza di vita, la salvezza è pienezza di vita perché è pienezza della benedizione di cui il Benedetto ha colmato i suoi amici.
Che il Signore ci renda benedizione per chi incontriamo sul nostro cammino.
Per questo egli ci ha fatto preti.
Anzi e prima ancora, per questo egli ci ha fatto cristiani.
Buona Pasqua!
+ Giuseppe Giuliano,
vescovo di Lucera-Troia